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dei liberi pensatori

 di Diego Redivo

Da qualche giorno sta prendendo corpo l’idea di dedicare una via di Trieste a Marcello Spaccini, sindaco della città dal 1967 al 1978. Un periodo burrascoso, almeno negli ultimi anni del suo mandato, a causa di quel Trattato di Osimo che provocò un’autentica rivoluzione politica in città con la caduta del potere democristiano, guardata con attenzione da molte altre parti della penisola.

La relativa vicinanza agli avvenimenti di cui fu protagonista Spaccini, uomo di vasta cultura e di radicati sentimenti cristiani, rende ancor oggi difficile dare un giudizio scevro da quelle passionalità che tanta importanza ebbero ai tempi degli accordi di Osimo. Infatti, le accuse allora rivoltegli di inettitudine, di scarso vigore morale e, al colmo, di antipatriottismo, cancellavano, nell’opinione della gente, quanto da lui fatto durante la Resistenza nonché l’autentico trasporto con cui aveva vissuto la “seconda redenzione” della città, come dimostra il documentario “Viva l’Italia” girato da Spaccini assieme all’amico Flavio Cavedali. Una figura, dunque, suo malgrado controversa che non ha ancora trovato un giudizio pacato e meditato in quella che è stata la sua città d’adozione. Marcello Spaccini, infatti, era nato a Roma il 31 luglio 1911 da una famiglia economicamente modesta, il padre Renato era un artigiano e la madre Zaira Del Vico insegnava pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia, ma ricca di valori.

Fin dall’infanzia egli dimostrò attitudini tecniche, così dopo aver conseguito la maturità classica si iscrisse alla facoltà di ingegneria dell’università di Roma, dove conseguì la laurea, nel ramo civile, il 20 novembre 1936; subito dopo, a Pisa, superò anche l’esame di Stato per l’abilitazione alla professione. Il suo primo incarico professionale - che determinò il corso della sua vita - lo ottenne il primo luglio 1937 entrando come allievo ispettore delle Ferrovie dello Stato. Dopo essersi sposato il 22 gennaio 1938 con Nella Prado con la prospettiva di continuare a vivere a Roma, le necessità professionali lo portarono, invece, a trasferirsi definitivamente a Trieste, dove nell’arco di un decennio nacquero i figli Andrea, Marina e Mario. Ma era ormai il tempo della grande tragedia mondiale e Spaccini, che aveva assolto gli obblighi militari nell’8° Reggimento del Genio, corpo del quale divenne ufficiale dopo il corso sostenuto a Pavia nel 1939, seguì il destino di tutti gli italiani in un conflitto in cui ottenne due croci di guerra al merito. Ma, soprattutto, si mise in luce durante la Resistenza, per lui ispirata da valori cristiani, come capo della Brigata Ferrovieri della Divisione triestina “Domenico Rossetti”, impegnata in azioni di sabotaggio o di rallentamento dei movimenti delle truppe tedesche.

La partecipazione di Spaccini al movimento resistenziale restò legata, in particolare, all’avventurosa liberazione, da lui capeggiata, di don Marzari, detenuto nelle carceri del Coroneo. L’immediata insurrezione, il 30 aprile 1945, del CLN che pose fine al dominio tedesco, venne soffocata, però, dall’arrivo delle truppe jugoslave. Spaccini, come molti altri, si rifugiò a Venezia, per rientrare a Trieste poco tempo dopo. Riprese così la sua vita professionale, in cui spiccò anche l’incarico di consigliere d’amministrazione dell’Acegat tra il 1953 e il 1957, e contrasse seconde nozze, vedovo ormai da quattro anni, con Laura Mordax de Dachsenfeld nel 1960, anno della nascita di Paolo, il suo quarto figlio; al contempo rinnovò l’impegno politico che, dopo l’incarico di consigliere comunale della Democrazia Cristiana ottenuto il 13 ottobre del 1958, si concretizzò, nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, nella nomina a sindaco della città, mandato che ebbe termine solo undici anni dopo. L’esperienza acquisita precedentemente alla guida dell’economato e dei servizi pubblici industriali nonché all’assessorato all’urbanistica lo portarono a considerare l’ammodernamento della macchina amministrativa il compito primario delle coalizioni di «centrosinistra» che lo sostennero; problema che andava di pari passo con l’allora crescente incubo di Trieste, ovvero la questione del traffico veicolare cittadino, per il quale Spaccini approntò il primo piano organico dopo aver consultato anche il giapponese Kenzo Tange.

Ma fu l’avvio della cosiddetta «grande viabilità» l’opera più consistente del suo mandato, intrapresa dall’alto di un’esperienza professionale consapevole della necessità di una radicale ristrutturazione delle infrastrutture stradali e ferroviarie della provincia che altrimenti, per la loro inadeguatezza, avrebbero condotto all’isolamento del porto. Anni, dunque, che cercarono di porre le basi per un nuovo sviluppo - che si rivelerà peraltro molto stentato - di Trieste che si intersecarono con le questioni politiche che riportarono la città agli anni del conflitto e del suo interminabile dopoguerra. Infatti, il periodo dal 1975 al 1978 fu quello della ribellione cittadina conseguente al Trattato di Osimo che portò alla nascita della Lista per Trieste, la quale determinò l’allontanamento di Spaccini dalla sua carica per imporre al suo posto, sull’onda della passionalità popolare, l’avvocato Manlio Cecovini. Si assistette, dunque, a un declino politico carico d’amarezza, in quanto i triestini in rivolta dimostrarono frequentemente di non considerare più Spaccini rappresentativo dei valori ideali della sua comunità ma, anzi, di ritenerlo come uno dei principali responsabili della mancanza di fermezza e di coerenza delle classi dirigenti cittadine, in special modo democristiane. Le si accusava, infatti, di aver accettato, senza dignità il diktat del governo italiano che non solo chiuse il contrasto confinario con la Jugoslavia senza contropartite ma che propose anche, come illusoria panacea dei problemi cittadini, strampalate zone industriali carsiche, letali, in realtà, sia dal punto di vista ambientale che nazionale. Una vicenda che mise Trieste al centro della politica italiana, inducendo due pezzi da 90 della politica nazionale, il radicale Marco Pannella e il missino Giorgio Almirante, a farsi eleggere nel consiglio comunale di Trieste.

Spaccini, concluso così amaramente il suo impegno amministrativo, prestò comunque il suo servizio al partito accettando l’offerta, pur destinata alla sconfitta, di candidarsi alle elezioni politiche del 1979. Partecipò, quindi, al declino della DC e dopo la bufera di Tangentopoli fu tra i primi a iscriversi al nuovo Partito Popolare Italiano nel quale militò fino alla morte, avvenuta il 25 marzo 1996.

 

 

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