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dei liberi pensatori

di Carmen Palazzolo

Le riflessioni di un’esule di prima generazione

Lunedì, 10 febbraio 2020, ricorre il 73°anniversario della firma del trattato di pace di Parigi, che assegnava l’Istria, Fiume, parte della Dalmazia e alcune isole del Quarnero, italiane per poco più di un ventennio ma di antica civiltà romano-veneta, alla Jugoslavia.

Nel 2004 una legge (30.03.2004, n. 92) ha proclamato il 10 febbraio “Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Il 2004 posto fine al lungo silenzio che ha accompagnato e seguito non solo l’esodo giuliano-dalmato ma tutta la storia del confine orientale d’Italia, che era considerata una storia regionale, marginale e non nazionale. Ed è sicuramente merito del politico Roberto Menia per la legge suddetta e dei professori Raoul Pupo e Stelio Spadaro, tutti triestini, per averlo fortemente sostenuto e averne scritto con l’autorità del loro ruolo.

La celebrazione del Giorno del Ricordo culmina ogni anno a Trieste nella cerimonia che si svolge alla Foiba di Basovizza, monumento nazionale, alla presenza di autorità nazionali, regionali e comunali civili, militari e religiose. Sono pure presenti rappresentanze delle associazioni degli esuli e delle associazioni combattentistiche e d’arma coi loro labari e, sempre più numerose, scolaresche nonché gruppi di persone appartenenti a categorie diverse provenienti da tutta Italia.

Ma per tutto il mese di febbraio ed oltre, manifestazioni ed eventi culturali vari inerenti le foibe e l’esodo giuliano-dalmato si susseguono in tutta Italia e ovunque nel mondo esista un gruppo di esuli capace di organizzarla. Tutto ciò è molto positivo perché le persone e soprattutto i giovani devono conoscere la storia per programmare per sé e le generazioni future un avvenire migliore di quello dei loro padri.

Io devo però esprimere due riserve: una inerente l’eccessiva concentrazione sulle foibe e sull’esodo, che è un’interpretazione restrittiva della legge sul Giorno del Ricordo, che invita a conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. È sulla complessa vicenda del confine orientale, che bisogna concentrarsi, della quale anche la storia delle foibe e dell’esodo fa parte e – perché no? – su tutto ciò che riguarda l’Istria, Fiume, Zara, la Dalmazia, la loro storia e le loro bellezze per sapere ciò che era e che abbiamo perso. La seconda riserva riguarda l’informazione sulla storia dell’esodo nelle scuole. Essa deve far parte del programma di storia contemporanea e deve essere data dagli insegnanti. Non la conoscono? Si informino. E parlo da insegnante.

L’occupazione jugoslava delle nostre terre diede gioia ai filoslavi e provocò la disperazione degli italiani. Subito questi ultimi - e in particolari quelli provenienti dalla penisola italiana: impiegati di uffici pubblici, insegnanti, carabinieri, guardie di finanza, sacerdoti e le persone più agiata del posto cominciarono a subire arresti e sparizioni. Sulle loro teste pendeva l’accusa di “fascisti” e “nemici del popolo”. E un velo di paura cominciò a calare sulle persone di lingua e cultura italiana. Ebbero così inizio le partenze per l’Italia, con regolari documenti d’espatrio o fughe, sia di giovani idealisti desiderosi di congiungersi alla madrepatria Italia, generalmente ragazzi che avevano appena concluso il ciclo degli studi superiori, studenti universitari o “di leva”, che non volevano effettuarla nell’esercito jugoslavo, sia di quanti avevano ragione di temere qualche ritorsione da parte dei nuovi governanti a causa della loro passata posizione o operato. 

Anche mio padre, siciliano, guardia di finanza in congedo, reduce da due anni di prigionia in Germania, scappò nascosto nella stiva carica di legna di una barca chioggiotta. Un giorno qualcuno mi chiese: “Perché tuo padre scappò se al tuo paese, come tu affermi, non era accaduto nulla di grave?”. Fuggì perché aveva paura. Fu la paura a far esulare la gente. Oggi risponderei così, senza esitazioni, alla domanda che mi fecero tanti anni fa due persone esuli, aggiungendo che la loro tesi era che la principale motivazione dell’esodo fosse il desiderio di rimanere italiani (aspirazione realizzabile anche rimanendo) e quindi di vivere sul territorio della madrepatria Italia non la paura, motivo che, a loro avviso, sminuiva il valore dell’esodo.
Assieme alla paura – a mio avviso - oltre alla già citata motivazione ideale del rimanere italiani e vivere su territorio italiano, ebbe grande rilievo la difficoltà e in alcune località l’assoluta impossibilità di professare e praticare la propria fede religiosa, l’impedimento ad esprimere liberamente le proprie idee pena la persecuzione e peggio. Ma ci furono anche motivazioni di carattere pratico come il maggior benessere e le maggiori possibilità occupazionali dell’Italia rispetto a quelle della Jugoslavia e addirittura l’imitazione. “Tutti partivano – mi disse una volta una persona – e abbiamo pensato di partire anche noi”.

Ma, perché tanto accanimento degli slavi contro gli italiani, tutti definiti “fascisti”? E chi era il fascista per lo slavo?

Per rispondere a queste domande basta leggere, in “cultura” di questo blog la recensione del volume di Giacomo Scotti “I massacri di luglio” per comprendere come l’italiano fascista fosse visto per lo meno come un invasore prepotente e impositivo. Va ricordato che gli slavi non potevano usare la propria lingua neppure in chiesa, che vennero chiuse le loro scuole, ed altre violenze. Bisogna aggiungere che se i soprusi e le angherie subite possono aver lasciato in essi un certo malanimo e una cattiva disposizioni nei confronti del popolo che li aveva perpetrati, essi impararono bene la lezioni, perché si comportarono allo stesso modo nei confronti degli italiani. Anche gli italiani furono perseguitati, le scuole italiane chiuse, ostacolata la professione religiosa, oltre a tutte le altre violenze che conosciamo.

Secondo gli storici – lo affermano i professori Raoul Pupo, Gloria Nemec e Anna Vinci – ne “Il Vademecum per il Giorno del Ricordo” – non era l’italiano in generale che era odiato dagli slavi ma quel particolare tipo di italiano che si era formato nel XIX e XX secolo, a seguito del processo di nazionalizzazione, i cui connotati tipici, fra loro strettamente connessi, erano soprattutto i seguenti: 1) Il carattere marittimo, in un contesto storico in cui, fin dalla prima antichità, ricchezze, idee, innovazione venivano dal mare. 2) L’inclusività, perché la sua origine era doppia: in parte etnica, vale a dire la continuità con il popolamento romanzo, ben evidente nelle principali città; in parte frutto di integrazione degli apporti provenienti sia dal mare (penisola italica e Mediterraneo orientale) che dall’entroterra. 3) Il carattere urbano, anche questo in continuità con la tradizione prima romana e poi dei comuni medievale italiani, secondo la quale la città è il fulcro di quella che, appunto, viene chiamata vita civile o, più semplicemente, civiltà. 4) Il potere, vale a dire l’egemonia sociale, culturale e politica, caratteristiche dell’italianità adriatica.

 

 

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