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dei liberi pensatori

poesie di Luciana Melon

Gli amanti di questa poesia possono essere due amici, due amiche, o volendo anche un amico ed un'amica, marito e moglie; nella nostra lingua, il verbo amare ha molte sfaccettature ed accezioni che rimangono velate.

La parola italiana “Amore” ha per lo più il significato di amore erotico, mentre in realtà non è sempre così; gli antichi Greci distinguevano l'amore amicale che si chiamava Philia da quello erotico chiamato Eros, e poi c'era quello spirituale Agape, quello appunto che mi ha ispirato questa poesia. Da leggere quindi come un addio a qualcuno che ha deluso un'amicizia.

“Il drone” è stata scritta in un momento particolare, molto particolare direi: una vicenda personale che mi colpita nel profondo, una delusione molto amara. Però contrariamente a quello che può sembrare, non è una poesia di amanti nel senso italiano del termine. Qui parlo di uno sconforto che può anche non essere quello di un amore coniugale ma una situazione nella quale una delle due persone si distacca completamente dall'altra e la vede con il terzo occhio, non più con gli occhi del cuore.

Il drone

Ti guardo, ma non ti vedo:

ti ascolto, ma non ti sento;

ripeti le stesse cose futili,

conosco le parole inutili,

riscopro gli stupidi patemi

i soliti irrisolti problemi. 

            Ti fisso, ma la mia mente      

            corre lontano e non ti sente;

            socchiudo gli occhi, esitante.

            Non sei più il mio amante.

            Mi estraneo da questo mondo:                                                                  

            sento la tua voce in sottofondo.                                        

Ma mi trovo lassù sopra a tutti,

a guardarci vicini ma distrutti,

in alto in cielo dove siamo nati

scopro che non siamo fatti

l'uno per l'altra; e sei lontano

anche se ci teniamo per mano.

            Tu che parli sempre di te stesso

            non ti accorgi, nemmeno adesso,

            che non ti ascolto più già da tanto:

            non ti rispondo, con rimpianto.

            E tu continui a parlare bla bla 

            ed io in alto lassù: sto bene là.

Ti vedo piccolo quale tu sei;

se potessi, a ridere scoppierei,

per la pace che regna quassù.

Un sorriso sulle labbra, laggiù. 

Basta ciò e tu vedi la mia letizia 

quale incenso alla tua dovizia

            

            di pigrizia, di indolenza, di nihilismo.

            Mi prendi la mano; no, non è lirismo

            non è altro che una liberazione   

            dal tuo ego e non un'ovazione.       

            Qua in alto non sento più nulla

            la scintilla per noi più non brilla.

Mi hai preso la mano, non la mente;

la stringi ma io non provo niente.

Soltanto le nostre mani si uniscono

ma a legarci stavolta non riescono:  

io sono quassù e ti vedo piccolo

e piccolo rimarrai quasi minuscolo

e sorrido sorrido sorrido.

Il sentiero esiste davvero, e c'è pure la roccia che sembra un primigenio belvedere naturale sul golfo di Trieste; non dimenticherò mai le volte che mia nonna mi portava là. All'andata pareva volesse volare mentre io rimanevo sempre un poco indietro; era impaziente di arrivare e non appena giunta, si sporgeva un poco dalla scogliera, respirava a pieni polmoni l'aria di mare e si girava verso di me con il più bel sorriso del mondo. Mi abbracciava e ci mettevamo a sedere: era radiosa. Ed io con lei. 

Poi iniziava a parlare a parlare; e diventava sempre più seria, fino a che rimaneva a fissare un punto della costa istriana e non parlava più. Allora, leggendo la tristezza sul suo volto e prima che si mettesse a piangere, io le dicevo che avevo fame o che ero stanca o che volevo tornare a casa. Qualche volta ci riuscivo, altre la vedevo asciugarsi le lacrime ed impotente non sapevo che cosa fare per consolarla; allora iniziavo a parlarle della scuola o dei fiori che amava tanto.

E durante il ritorno a casa c'era sempre una ragazzina che chiacchierava tenendo per mano un'Istriana che con il sorriso era lì ma con il cuore era a quaranta chilometri di distanza, oltre il mare.

La stradarèa

                        Le graie alte e fisse scondeva 

                        un toco de curva dela stradarèa; 

                        me son fermada là perché a destra,

                        proprio drio dela spolia ginestra,

                        że un passagio basso tra i rovi;

                        vardo, ma i pìe no me se movi.

                                               Conosso ben quel buso intela graia; passo

                                               e me ricordo subito co' vedo quel masso

                                               quel mar e dela mia Istria el costòn. 

                                               Quel blu, quel verde e quel maròn.

                        Me sovièn subito de 'sta scogliera

                        e anche de quel scagno in piera

                        de dove vardaimo la nostra tèra.

                        Sero i oci e la sento co' la me contava:

                        “Via de là, nissun contento andava”.

                                               Un fià de vento sule spale: e me par

                                               de sentir sul colo el suo brazo passar

                                               e sento quel profumo de violèta;

                                               me par de gaverla qua, come de mulèta.

                        Scaturisso de boto, ma no vedo nissun:

                        malorsiga, me ga fato un scherzo qualchidun.

                        Torno indrio sula stradarèa: no xe nissun.

                        Ciamo; me vien drio 'sto profumo de violèta;

                        coro fin in zima e li vedo, che i me speta.

                                               “Do te ieri? per tuto te gavemo zercado”.

                                               Go ancora in tei oci l' Istria che go lassado.

                                               “Volevo vèder el mar; là xe una terazèta

                                               che vignivo con mia nona, de mulèta,

                                               per vardar la nostra tèra oltre 'l mar

                                               la nostra casa che gavemo dovudo lassar

                                               in man foreste consegnada                                    

                                               ma col cuor mai abandonada”.

                        Iera tanto bela 'sta vision che son ancora rintronada

                        e 'sto profumo de violèta che me sento ancora vizin 

                        come se ela saria qua, me piasi e me fà morbìn.

                                               Ma no ghe digo del profumo che sento,

                                               i pensarìa che son fora de sentimento.

                                               Violète? Che go lumìni i dirìa: “Sturla,

                                               semo in genàio, sa, cossa xe una burla?”  

                        No, la xe ela che la me compagna e la me ripeti

                        che la propria tèra, via del cuor, nissun mai mèti. 

(2000)

 

 

 

 

 

Il sentiero

Le siepi alte e rigogliose nascondevano

un tratto della curva della strada;

mi fermai là perché a destra

proprio dietro alla spoglia ginestra

c'è un passaggio basso tra i rovi;

guardo, ma i piedi non si muovono.

            Conosco molto bene quel buco nella siepe: passo

            e mi ricordo subito quando vedo quel masso

            quel mare e della mia Istria il costone.

            Quel blu, quel verde e quel marrone.

Mi rammento subito di questa scogliera

ed anche della panca in pietra

da dove guardavamo la nostra terra.

Chiudo gli occhi e raccontar la sento:

“Via da là, nessun andava contento.”

            Un soffio di vento sulle spalle: e mi pare

            di sentire sul collo il suo braccio passare 

            ed odoro quel profumo di violetta;

            mi sembra di averla qua, come quand'ero piccola.

Mi risveglio di colpo, ma non vedo nessuno:

accidenti mi ha fatto uno scherzo qualcuno.

Chiamo; mi segue questo profumo di violetta;

corro fino in cima e li vedo, mi stanno aspettando.

            “Ma dov'eri? Ti abbiamo cercata dappertutto”

            Ho ancora negli occhi l'Istria che ho lasciato.

            “Volevo vedere il mare, là c'è una terrazza

            dove venivo con mia nonna, da ragazza

            per guardare la nostra terra oltre al mare

            la nostra casa che abbiamo dovuto lasciare

            in mani straniere consegnata

            ma col cuore mai abbandonata.”

Era tanto bella quella visione che sono ancora stordita

e questo profumo di violetta che mi sento vicino

come se lei fosse qua, mi piace e mi rincuora.

            Ma non racconto a nessuno del profumo che sento

            penserebbero che sono matta.

            Violette? Ma cosa dici? Scema,

            siamo in gennaio, cos'è uno scherzo?”

No, è lei che mi accompagna e che mi ripete

che la propria terra via dal cuore, mai nessuno mette.

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