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dei liberi pensatori

di Diego Redivo

Robe del bel de una volta. Che po’ el bel de una volta, forsi, ierimo solo che nualtri, come che nualtri se ricordemo che ierimo” [Cose del bello di una volta. Che poi, il bello di una volta, forse, eravamo solo noialtri, come noi ci ricordiamo che eravamo]: non diversamente si può intendere il significato più profondo delle apprezzate storie narrate, con arguta e nostalgica ironia, da Mariano Faraguna (1924-2011) e da Lino Carpinteri (1924-2013), triestini formatisi culturalmente al Liceo Classico della città.

 

Faraguna, presto orfano di padre, fin da bambino assorbe nella sua famiglia le “antiche storie” che poi riversa nelle Maldobrie e appare dei due quello più impostato sulla corda comica oltre a essere un inesauribile bagaglio di ricordi cittadini. Carpinteri, figlio di un siciliano e di una madre ebrea, per cui subisce le persecuzioni razziali, si occupa, invece, di dare ordine alla prorompente inventiva dell’amico e di impostare ritmicamente e poeticamente le sue storie. Il loro sodalizio si avvia, nell’immediato dopoguerra, con il giornale “Caleidoscopio” a cui segue “La Cittadella”, pagina satirica di loro proprietà, pubblicata settimanalmente sul “Piccolo”; una produzione nata per partecipare attivamente alle battaglie e ai tragici avvenimenti del periodo angloamericano di Trieste.

Un primo corposo risultato di questo impegno si ha con la pubblicazione di Sotto due bandiere, tre anni di storia antipatica che, nel 1948, rende conto delle “agitate vicende giuliane attraverso una colorita serie di pezzi satirici, di vignette e di documenti”. Più suscettibile di critica, almeno nel giudizio dei posteri poiché in quello dei contemporanei incontra i più vivi apprezzamenti, è, nello stesso anno, la sapida invenzione dei contadini sloveni, marito e moglie, Mirko Drek (cognome “cambroniano” poi modificato, con ironica autocensura, in Druse Mirko) e Milka Pecenko (o Milka Moja), graficamente rappresentati dalla matita di Renzo Kollmann e di Elsa. Al tempo, la feroce parodia dello sloveno comunista Mirko, riconducibile al filone letterario della “satira del villano”, rappresenta la percezione che si ha dell’avversario nazionale e ideologico nell’aspra contesa in corso nella Venezia Giulia che è soprattutto uno scontro tra la città, italiana e borghese, e la campagna, slava e contadina, che mette in luce la differenza antropologica dei rispettivi abitanti. Attraverso il gustoso pastiche linguistico italo-sloveno delle poesie di Mirko, la cui nascita è rivendicata da sette borghi del Carso così come quella di Omero lo era da sette città della Grecia, si possono rivivere in forma satirica tutti gli avvenimenti di quei travagliati anni di cui Mirko cerca di capire la logica e di spiegarla ai lettori, non riuscendoci praticamente mai. Le vicende di questo poeta-soldato, emulo quasi di D’Annunzio, appaiono certamente impietose ma, contestualizzate, rendono appieno la temperie di un tempo in cui gente di altra etnia, estranea alla città, aveva profanato i luoghi sacri al patriottismo italiano, ballando il “kolo”, la danza popolare slava; ciò aveva reso, nella percezione del tempo, ancor più evidenti le differenze sociali e culturali dei due popoli a confronto, di cui, a quello vinto, non restava altro strumento di difesa che la ridicolizzazione di chi aveva sì prevalso ma che ancora troppo lontano appariva in termini di civilizzazione rispetto a quella modernità borghese che esso si era illuso di aver raggiunto soggiogando le città italiane dell’Adriatico orientale. Anche se i due autori hanno in seguito sconfessato la creazione di Mirko, definendola sorpassata in quanto generata da un periodo di odi e contrapposizioni consegnata definitivamente alla storia, non tramontò certo il loro impegno ideale, come traspare dalla “Cittadella”, la pagina del “Piccolo” più amata dai lettori in quanto sapeva cogliere con arguzia i sentimenti più profondi della comunità triestina. Ciò è apparso evidente, oltrechè nel confuso dopoguerra, soprattutto verso la fine degli anni Settanta, quando l’Italia si è trovata alle soglie del “sorpasso” elettorale comunista e anche “Il Piccolo”, con il passaggio di proprietà da Chino Alessi al gruppo Rizzoli, braccio operativo dell’ipotizzato “compromesso storico” tra DC e PCI, ha seguito il vento. La svolta a “sinistra” del quotidiano, che abbandona così la sua tradizionale impostazione liberal nazionale, trova unicamente nella “Cittadella” la continuità - espressa in modo ironico e fustigatrice dei tanti opportunisti - dei valori che avevano reso indissolubile il legame tra la cittadinanza triestina e “Il Piccolo”.

Simbolica dell’opposizione di Carpinteri e Faraguna (con la collaborazione di José) al servile omaggio della borghesia ai nuovi potenti è la raccolta in volume delle vignette apparse sulla pagina settimanale con il titolo Borghesia eroica (1978). Una borghesia che si accoda - per parafrasare alcune delle tante vignette - ai cortei operai del Primo Maggio rendendoli così “aperti dalle bandiere e chiusi dalle banderuole”, da quelli cioè che “erano comunisti già quando erano fascisti”; ovvero quella classe dirigente italiana sempre prona ai voleri dei vincitori di turno per cercare di far passare indenni le proprie ricchezze e il proprio benessere attraverso i travagli della storia. Ma se l’opera di Mirko e quella della “Cittadella” - che inventa periodicamente situazioni e personaggi, “per insempiar la gente”, che poi entrano nel linguaggio comune dei triestini come la ricorrente evocazione della “Débegnac”, una sorta di parodistica e popolaresca “Godot” in gonnella, protagonista della fortunatissima rubrica Cosa dirà la gente? - rappresentano l’aggancio al contingente e all’attualità, la produzione letteraria dei due autori rappresenta, invece, una Mitteleuropa, popolana e divertente, ironicamente destinataria dei rimpianti di un mondo perduto spesso irragionevolmente esaltato. E’ il caso, ad esempio, di Serbidiola (parola derivata dall’incipit “serbi Dio l’austriaco regno” dell’inno asburgico), una raccolta di 59 poesie apparsa nel 1964 e poi più volte modificata anche con l’apporto di Eugenio Montale che compone una poesia - La madre di Bobi B. - per l’edizione del 1968, nella quale “el noneto” ricorda i bei tempi andati (“co’ ierimo putei”) in un momento in cui Trieste vive un profondo declino economico. La memoria comune che il protagonista intende evocare non è altro che l’età della giovinezza, circonfusa da un alone mitico e felice sintetizzabile nel tormentone “che tempi, che ridade”; anche se, in realtà, emerge dai vari racconti del “noneto” che la vita della sua famiglia, privata della figura paterna scomparsa nelle circostanze più incredibili, è stata contrassegnata dalle ristrettezze economiche, al punto che la madre veniva data per morta se non si faceva vedere per un mese intero al Monte di Pietà a impegnare i suoi miseri averi (“suste e broche del lavabo”). La memoria storica che ne traspare è quella degli umili e della gente comune, vittima delle decisioni dei potenti di turno; ma è anche pregiudizialmente avversa al progresso, costantemente demonizzato, che ha come spartiacque tra bene e male la scomparsa dell’impero asburgico, simbolica non solo della perdita della civiltà tradizionale, ma soprattutto, dell’oblio dei valori, dei buoni sentimenti, dell’eleganza e delle apprezzabili usanze radicate nei vari strati sociali.

La produzione narrativa sicuramente più celebre di Carpinteri e Faraguna si sviluppa, però, tra il 1966 e il 1983, ed è legata alla felice creatività delle Maldobrie, parola probabilmente derivata dal croato “malo dobro” (poco bene) e che in istroveneto assume il significato di “ribalderie, birbonate”. Sono testi pensati per la recitazione - memorabile quella di Lino Savorani alla radio (Cari stornei) e in teatro - scritti in forma di dialogo che spesso appare, piuttosto, un monologo incentrato su ben poco credibili aneddoti, rievocazioni, ironie e sproloqui di Bortolo, un pescivendolo ex “uomo di mare”, che travolgono Siora Nina, immagine stereotipa di popolana, vittima della vanità e dell’ombrosità del protagonista. Il trionfale successo che le Maldobrie hanno ottenuto nella loro area geografica di riferimento, rendendole quasi un elemento fondante dell’identità culturale giuliana, ha sollecitato la pubblicazione di ben sei volumi (più alcune traduzioni in italiano, curate da Furio Bordon, e in tedesco) di cui l’ultimo è Viva l’A, apparso nel 1983. Rispetto a Serbidiola lo scenario in cui si svolgono le storie raccontate da Bortolo si estende all’Istria e alla Dalmazia. Il momento storico è in genere quello di “prima della prima guerra” ma con varie intrusioni anche nel periodo tra le due guerre mondiali. In particolare, Bortolo vuole trasmettere, in un mondo allo sbando, il suo valore ideale di ordine rappresentato dal defunto impero austriaco (notoriamente “un paese ordinato”) che ha avuto il suo collasso quando ha prevalso la “disorganizazion [...] E co’ gà comincià la disorganizazion, l’Austria no ve xe stà più gnente de ela”.

Una concezione del mondo, dunque, disintegratasi con la scomparsa dell’impero, resa intelligentemente da Carpinteri e Faraguna attraverso una locale e originale questione della lingua, cioè la creazione di un fantasioso dialetto spesso infarcito di termini slavo-tedeschi in Serbidiola, peraltro piuttosto semplice rispetto a quello delle altre opere, e di un miscuglio di istro-dalmato-veneto nelle Maldobrie, con il quale viene abbozzato un mondo quasi fiabesco com’è in realtà fiabesca la vulgata mitteleuropea, mera invenzione letteraria e folkloristica. Un’ambientazione ulteriormente riproposta nella successiva produzione teatrale dei due autori, contrassegnata da spettacoli di grande successo popolare quali Due paia di calze di seta di Vienna, Un biglietto da mille corone, Marinaresca, e Co’ ierimo putei.

 

 


 

Qualche esempio di maldobria sul sito di Nautilus Italia

 

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