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dei liberi pensatori

Testo di Silva Bon

Il dissolvimento delle Comunità ebraiche del Nord Est negli anni 1938 – 1945 viene avviato dalla promulgazione delle leggi razziste fasciste, volute da Mussolini.

Messi di fronte ad ostacoli gravi rispetto alla possibilità di condurre un’esistenza “normale”, agli impedimenti opposti alla loro vita lavorativa, alla chiusura della carriera scolastica dei figli, resi insomma cittadini di serie B, emarginati in un “ghetto” sociale, colpiti duramente sul piano economico, molti membri delle Comunità si allontanano dalle città e dalle terre della “Decima Regio” già alla fine del 1938 e nei primi mesi del 1939.

Basandosi sui numeri degli iscritti alle Comunità di Trieste, di Gorizia, di Fiume, di Abbazia, ufficialmente e dichiaratamente “ebrei”, al di fuori di conteggi estensivi derivanti da ideologie biologico – razziali o da politiche persecutorie applicate con pratiche particolarmente zelanti, nel 1938 si contano 8.070 persone.

Nel 1943 risultano presenti sul territorio circa 3.482 persone, molto meno della metà.

La quantificazione in questi casi costituisce da un lato il frutto di difficili calcoli e valutazioni, dall’altro parla chiaramente del dissanguamento fisico e materiale della componente ebraica di queste terre e del forte impatto della legislazione messa in atto contro di essa.

Gli ebrei residenti in questa parte d’Italia, del resto, erano molto lucidi nella loro analisi rispetto agli accadimenti politici, che si stavano producendo a livello nazionale come internazionale.

La vicinanza geopolitica con i paesi ( e spesso la contiguità parentale con gli ebrei ) degli Stati confinanti; il passaggio massiccio di fuggiaschi dall’Europa Centro – orientale attraverso i porti di Trieste, la Porta di Sion, e di Fiume; il confronto umano con i racconti delle loro vicissitudini, quando li sostenevano e li accoglievano nelle loro case; avevano reso le Comunità locali particolarmente attente e sensibili, in qualche modo realisticamente consapevoli del pericolo incombente, più che altre Comunità inserite in diversi contesti urbani e regionali italiani.

Il dramma dell’8 settembre 1943 viene colto in tutta la sua portata: l’occupazione tedesca, tanto paventata, crea lo stato di necessità ultimativo per tentare di mettersi in salvo. 

Nessuno ha dubbi sul pericolo mortale derivante dal continuare e risiedere nella propria residenza, anche se l’illusione o l’autoinganno che soprattutto anziani e/o malati oppongono alla realtà e che nascono dalla speranza di essere risparmiati sulla base di considerazioni umanitarie, fa salire il numero dei deportati a 1.182.

Il numero, non definitivo per difetto, è molto alto: costituisce un’alta percentuale dei deportati da tutta Italia e si spiega anche con la cattura di persone impedite alla fuga non solo da infermità dovute all’età o alla malattia, ma anche dalla fragilità sociale ed economica, come nel caso degli ebrei corfioti di Trieste o degli ebrei stranieri, momentaneamente transitanti o rifugiati nelle zone dell’Alto Adriatico.

La non soppressione di documentazione, accumulata durante il periodo fascista da burocrati alacri e a volte anche specificatamente motivati, rende il processo di distruzione delle vite, messo in atto con il piano della “soluzione finale” dai nazisti, relativamente facile.

Oltre ai nuclei aggregati negli Ospedali o nelle Case di riposo, anche i dispersi nel tessuto urbano e provinciale vengono rintracciati con rapidità, sulla base di liste anagrafiche preesistenti o di liste che ancora nel 1944 vengono costruite e fornite da uffici e istituzioni italiane, in qualche modo referenti della Repubblica Sociale Italiana, che pure è di fatto delegittimata nel territorio del “Litorale Adriatico”, istituito da Hitler.

Chi può, fugge, perché se fino al 1940 l’emigrazione era una possibile via di scampo, dopo l’8 settembre la fuga costituisce l’unica alternativa concreta da opporre alla perdita della vita.

La dispersione, drammatica e difficile da pensare e da organizzare, si attua così in forme diverse, ma ha una sua specificità, quella di vedere interi nuclei familiari, strettamente uniti e collegati, muoversi compatti, nel rispetto dei bisogni delle varie generazioni, anziani, bambini, neonati, donne incinte, ragazze.

Alcuni non vanno molto lontano, restano in zona, calandosi nelle piccole realtà montane, “invisibili”, eppure ben individuati dai residenti, nei piccoli paesi della Carnia o della Bassa Friulana.

Altri pensano alle città d’arte, Venezia, Firenze, dove forse non ci si sarebbe dovuto aspettare bombardamenti e scontri bellici ravvicinati.

Altri pensano alle grandi città, Milano ad esempio, dove poter “diluirsi” nella grande concentrazione massificata di gente.

Altri pensano al Sud, ma la difficoltà di oltrepassare la Linea Gotica, il fronte militare, impedisce di raggiungere in tempi brevi gli eserciti alleati; spesso la meta agognata è Roma, ma i luoghi reali in cui trovano rifugio gli ebrei stanno sugli Apennini, nelle zone montane dell’Abruzzo, oppure ancora prima nelle Marche, in Romagna.

La speranza rappresentata dalla fuga in Svizzera è difficile da costruire: è necessario trovare le informazioni e i contatti giusti; spesso avere disponibilità di denaro, anche in termini cospicui, per pagare i passeur; essere in grado di affrontare un viaggio di avvicinamento a Milano quanto mai pericoloso, con le linee ferroviarie continuamente sorvegliate dalla polizia ferroviaria e dalle SS, tra l’altro sotto il pericolo ripetuto di bombardamenti; avere la forza fisica di oltrepassare il confine di notte, arrampicandosi su stradine o sentieri in montagna; infine correre la chance di non subire il réfoulement, il rifiuto, da parte delle autorità militari e civili confinarie, che in lunghi periodi hanno chiuso ogni possibilità di accoglienza in territorio. 

 

 

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