οδός

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dei liberi pensatori

Prima di parlare di esodo - di quello giuliano-dalmata o di altri - è necessario definire il termine. Per “esodo” si intende l'abbandono forzato di una popolazione della propria terra natia.

Io sono un'esule, perché sono nata nel 1934 sull'isola di Cherso, e precisamente a Puntacroce, ora Punta Križa, il villaggio più meridionale dell'isola di Cherso, quando essa apparteneva all'Italia. I miei genitori erano Maria Lazzarich (cognome cambiato durante il fascismo in Lazzarini) e Giovanni Palazzolo. Me ne sono andata dal mio paese natio con mia mamma e mia sorella, minore di 7 anni, nel marzo del 1947.

Perché ce ne siamo andati?

Il mio papà era siciliano; aveva conosciuto mia madre facendo la guardia di finanza nella caserma del paese. S'innamorarono, si sposarono, con immensi sacrifici misero su nel paese un negozio di generi alimentari e coloniale – così diceva la licenza – in realtà un emporio, dove si vendeva un po' di tutto: dalla farina bianca e gialla allo zucchero, al caffè ma anche ai quaderni e alle matite. Per guadagnare il denaro necessario all'allestimento questo piccolo commercio il mio papà era andato a combattere volontario in Spagna. Fu quindi proprio un'attività messa su sulla propria pelle. Poi venne la guerra e la mamma dovette mandare avanti il negozio da sola perché il papà fu richiamato in servizio e a un certo punto mandato addirittura in Albania. Si trovava lì il giorno dell'armistizio l'8 settembre 1943 e, non avendo accettato di combattere coi tedeschi, fu spedito prigioniero in Germania. Rimase per due anni in un campo di concentramento e poi, finita la guerra, con un viaggio fortunoso compiuto prevalentemente a piedi e con qualche passaggio di fortuna, ritornò al paese... e trovò tutto cambiato!

Non solo lì l'Italia non c'era più ma non era nemmeno più proprietario del negozio che gli era costato tanta fatica, perché dopo l'occupazione partigiana un gruppo di paesani se ne era appropriato dicendo a mia madre che la proprietà privata non esisteva più, che tutto apparteneva a tutti, al popolo, e così quel negozio e che, se voleva, poteva rimanere a lavorarci come commessa, non più come proprietaria, cosa che la mamma non accettò.

Nei primi anni Quaranta in quel territorio, italiano per poco più di un ventennio ma di antica cultura romano-veneta, dopo l'occupazione delle truppe jugoslave, essere nati nella penisola, in Sicilia o Sardegna costituiva di per sé una situazione a rischio, a cui si aggiungeva per mio padre l'appartenenza alle Guardie di Finanza e la perdita della proprietà del negozio, che costituiva la fonte di reddito della famiglia. Paura e impossibilità di matenere sé e la propria famiglia furono dunque le ragioni che indussero mio padre alla fuga, alla prima occasione propizia. Ricordo ancora il pomeriggio che venne a casa e disse a mia madre: "Maria, preparami una borsa con qualcosa da vestire perché c'è qui nel porticciolo una barca di Chioggia per caricare legna, il cui proprietario è disponibile a darmi un passaggio per l'Italia". Era il 1946. Un anno dopo la mamma lo seguì con mia sorella di 5 anni e me con un regolare permesso di espatrio.

Questo fu l'esodo della mia famiglia ma ognuno di noi lo visse, allora e nel tempo, in modo diverso. Per i miei genitori significò, come coppia, l'impossibilità di realizzare il progetto di vita che avevano fatto e la necessità di ricominciare tutto da capo ma per la mamma, le cui radici erano in quella terra, fu una lacerazione che non soffrì il papà che le aveva altrove; per mia sorella e me significò l'abbandono della casa, dei parenti, degli amici... ma a quell'età lo spirito di adattamento è grandissimo e la presenza dei genitori è quella più essenziale e rassicurante per cui la partenza dal luogo in cui eravamo vissute fino a quel momento non fu particolarmente traumatica; io continuai altrove, con altri compagni e insegnanti, la scuola media e mia sorella intraprese la sua carriera scolastica l'anno successivo. Finché visse mia madre conservò dentro una gran rabbia per tutto ciò che riguardava il mondo "di là", luogo di ogni male cui si contrapponeva il mondo "di qua", luogo di ogni bene. Solo io recuperai nel tempo le mie radici e la mia identità di esule.

Il vissuto della mia famiglia è un esempio di ciò che è più o meno accaduto in tutte le famiglie degli esuli per cui non c'è stato un solo esodo ma tanti esodi quante furono le persone esodate.

Ho sempre pensato che il mio papà abbia fatto bene a scappare perché numerosissime furono le persone che rimasero, fiduciose e convinte di non aver nulla da temere perché non avevano fatto mai del male a nessuno... eppure vennero a prelevarle e, molto spesso, di esse non si seppe più nulla come ci racconta Clara Morassi, di Gorizia: 1"... Con l'arrivo delle truppe titine a mio padre - che era stato il presidente della provincia di Gorizia e aveva avuto anche altri incarichi pubblici importanti oltre ad essere un ricco commerciante di legname – venne consigliato da più parti di allontanarsi dalla città, consigli a cui lui rispose: 'Non ho mai fatto torto a nessuno, tutti mi conoscono e certamente sarò interrogato essendo stato per anni un'autorità, ma di certo sarò poi rilasciato; come pretendete che lasci mia madre inferma, mia sorella vedova di guerra con due figli piccoli, la mia famiglia e la mia azienda che ha sempre lavorato in buon accordo con gli sloveni'. Ma non andò così: lo arrestarono, non lo rilasciarono mai e non si seppe mai con precisione quale tipo di calvario e fine abbia subito.

E non è che uno dei tanti casi.

Ma vediamo altri aspetti della situazione.

"La città di Fiume - scrive Arnaldo Sain esule da Fiume vissuto a Buenois Aires in Argentina - essendo al confine con la Jugoslavia, fu tra le prime città italiane che caddero nelle mani dei cosiddetti liberatori ... l'occupazione avvenne il 3 maggio 1945... i giornali jugoslavi diramarono subito la notizia che pure le città di Pola e di Trieste erano state 'liberate' come quella di Fiume... e al rumore dei cinque anni di guerra subentrò un fittizio silenzio, che annunciava un'altra guerra, quella dei nervi. I cittadini che avevano di che vivere in Italia prendevano la fuga ma il resto dovette assoggettarsi al sistema, cioè vivere alla meno peggio per il bene dei propri figli.

La vita era insopportabile, uguale come durante la guerra. Tutto era tesserato, l'unica differenza era che non regnava più la distruzione, bensì la costruzione, cioè con il lavoro cosiddetto volontario si doveva ricostruire la città distrutta dai bombardamenti angloamericani, ma anche costruire strade, ferrovie, ponti. E con quale sacrificio per i cittadini! che, dopo le otto ore lavorative normali, dovevano presentarsi al cosiddetto lavoro 'volontario' se no non ricevevano i buoni per il vestiario e venivano espulsi dalla fabbrica in cui lavoravano come elementi reazionari'. E non solo! perché conosco una signora di Cherso - classe 1919 e tuttora vivente – che, allora giovinetta, si rifiutò di andare a questo cosiddetto lavoro volontario e fu imprigionata.

'Inoltre, la libera vendita non esisteva; i viveri venivano dati con la tessera di razionamento ed erano insufficienti per cui il bacillo di Koch mieteva più vittime che la guerra passata e, a completare l'opera ci pensava l'OZNA (la polizia segreta). Infatti, se uno si lasciava sfuggire una parola non conforme alle direttive del Governo davanti a orecchie indiscrete, il giorno dopo spariva.

Iniziarono pure a scarseggiare quelle piccole cose indispensabili come pettini, aghi, carta,..

A Fiume la vita era diventata insopportabile..."

E "... Potevamo noi restare - scrive Franca Dapas, esule da Rovigno e residente a Padova – in un paese che, dopo duemila anni di storia, ci diventava improvvisamente straniero per lingua, usi, costumi, tradizioni, in un regime politico che ci toglieva la libertà, ci chiudeva le chiese - (Aldo Venier ricorda nel volume citato che le chiese di Parenzo erano state chiuse al culto con assi di legno inchiodate sui battenti delle porte per impedire ai fedeli di entrarvi) - e le scuole, ci confiscava i bene e ci privava perfino della speranza di vedere riconosciuti i nostri diritti di italiani, nel caso fossimo rimasti?

E poi, come non tener conto della paura e dello stato d'ansia continuo che ci attanagliava dopo gli infoibamenti, facendoci sentire continuamente in pericolo... "

La principale motivazione dell'esodo, checché ne dicano gli idealisti, fu infatti - a mio avviso - la paura; essi mettono invece al primo posto la conservazione della propria identità di italianie ritengono "riduttiva" la motivazione della paura.

Ma in realtà era la paura che permeava tutta la vita quotidiana della gente, perché erano considerati "nemici del popolo" ed erano quindi a rischio di vita, tutti quelli che non erano d'accordo con la linea politica del regime, che poneva al primo posto l'annessione di quelle terre alla Jugoslavia. Erano quindi considerati tali inanzitutto coloro che avevano lavorato alle dipendenze dello Stato italiano e dell'amministrazione come le Guardie di Finanza e i Carabinieri, ma anche gli impiegati civili come i segretari, gli impiegati e le guardie municipali, gli insegnanti, i bidelli. Un accanimento particolare e feroce fu poi riservato ai sacerdoti e ai fascisti, categoria, quest'ultima, sulla quale ci sarebbe da fare una ricerca perché, a quanto mi risulta, tutti coloro che avevano un impiego o erano proprietari di un esercizio pubblico, commerciale, industriale o altro, sotto il fascismo - che era un regime come il comunismo – per avere il permesso di esercitarlo dovevano iscriversi al Partito Nazionale Fascista, quindi lo erano tutti salvo qualche rara eccezione.

Tutte queste categorie di persone erano costantemente sorvegliate, vivevano in pericolo di vita, venivano in qualche modo perseguitate.

Ma i motivi delle persecuzioni non furono sempre e soltanto politici; spesso essi erano purtroppo dovuti a vendette personali o al desiderio di impossessarsi degli averi di qualcuno, come accadde alla famiglia di un mio amico, proprietario di una grande fattoria con terreni, con nove mucche e altri animali nelle stalle e altro, che una sera, mentre era a tavola con la sua famiglia, venne prelevato da casa assieme ad essa con quanto indossavano e nient'altro, fatto salire su un camion e accompagnato al confine con l'Italia. Naturalmente i suoi beni furono immediatamente confiscati.

Furono fatte sparire intere famiglie, compresi bambini di pochi mesi. Le donne, a volte assieme ai figli, furono spesso arrestate al posto dei mariti latitanti o per farli uscire allo scoperto e mentre erano in carcere di frequente sottoposte a violenze e stupri.

E non consola scoprire che dalle ultime ricerche negli archivi croati risulta che il Governo centrale era al corrente degli eccessi che venivano compiuti a livello locale, non era d'accordo con essi e cercò di porvi un freno senza tuttavia riuscirci perché, nell'assegnazione degli incarichi, alle competenze, anche culturali (l'analfabetismo era ancora piuttosto diffuso), erano privilegiati i meriti politici, acquisiti nella lotta per la liberazione.

C'era quindi anche la paura di parlare, perché qualunque parola poteva essere motivo di arresto e peggio; paura o addirittura impossibilità di andare in chiesa, di sposarvisi, di far battezzare i propri figli; per i maschi paura di essere arruolati nel cosiddetto lavoro volontario per la ricostruzione.

I motivi delle persecuzioni

Un altro motivo che indusse molte famiglie all'esodo fu la chiusura delle scuole italiane. Per questa ragione i ragazzi venivano addirittura mandati in Italia da soli – come la poesia riportata sotto descrive – o accompagnati in Italia per frequentarvi le scuole italiane, come accadde a una famiglia che conosco, in cui un padre, essendo stata chiusa la scuola italiana del paese, al momento di far intraprendere alla figlia di 6 anni l'iter scolastico, la accompagnò a Roma e la consegnò a Padre Flaminio Rocchi perché la mettesse in un collegio a frequentare la prima classe elementare. Poi il papà ritornò al paese e fece domanda di espatrio... che gli fu negata per 10 anni! Durante i quali la bimba non potè vedere i suoi familiari ed essi lei... si può immaginare con quale sofferenza.

I ragazzi che giungevano in Italia, soli o accompagnati, furono poi raccolti nei diversi collegi per i ragazzi profughi, che sorsero un po' ovunque nel nostro paese grazie all'Opera Profughi ma anche grazie a generosi cittadini come Marcella Maier Sinigaglia e il marito, Padre Damiani, don Marzari, Padre Flaminio Rocchi e altri

Ma questo è un altro capitolo dell'esodo.

Ecco come descrive in versi dialettali il suo esodo Joze Brodnik, che dopo la fuga fu accolto prima nel collegio per ragazzi profughi "Niccolò Tommaseo" di Brindisi e poi nel "Fabio Filzi" di Gorizia.

 

 

Son scampado presto via

da quela che iera casa mia

non perché ladro

o cossa so mi,

ma me zercava la polizia

per portarme via coi druzi...

(e pensar che gavevo

le braghe coi buzi).

Alora con una picia valigeta

de carton e no de pele vera

go ciapà una coriera.

Son scampà

de quel mondo de mati

de s'ciavi, tuti serbi e croati.

Alora su quela coriera

speravo de pasar el confin

tardi de sera

perché quei maledeti

voleva documenti

ma mi non gavevo niente.

 

 

 

iero solo, picio e spaventado,

ma indrio non saria tornado.

I domandava documenti

e per paura tuti bateva i denti.

E mi picio alora

me go sentà vizin una signora:

go pregà un poco Dio...

e lori me ga credù de ela fio.

Pasado el confin go respirado

che senza fià iero restado.

Gavevo dodici ani appena

co go lassà tuto drio la schiena.

Addio bella, mia, Abbazia!

El cuor te go lassà

anche se son scampà

...........................

Poi Brindisi, Gorizia,

ma questa xe un'altra storia.

Meno mal che tuto

xe finito in gloria.

 

1Questa e le altre testimonianze riportate in questo scritto sono tratte dal volume "Chiudere il cerchio. Memorie giuliano-dalmate" a cura di Olinto Mileta Mattiuz e Guido Rumici, vol. III

 

Carmen Palazzolo

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