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dei liberi pensatori

Ragioniere, dirigente amministrativo e uomo politico
Cherso, 14 agosto 1925 - Gorizia, 23 maggio 2010

Francesco - detto anche Franco o Checco - è il secondo dei tre figli di Francesco Moise e Lieposava Misetich. 

Di Cherso la famiglia Moise era una delle più eminenti per lignaggio e censo, presente di certo – secondo la tradizione oralmente trasmessa in famiglia e nel paese - dalla battaglia di Lepanto (1571), durante la quale due suoi membri si distinsero per il valore e perciò furono fatti nobili dal doge allora in carica. I membri di questa famiglia  - che conta fra le sue fila personaggi famosi, come il grammatico Giovanni Moise, autore di una poderosa grammatica italiana – furono sempre presenti nella  vita pubblica di Cherso perciò la loro storia è anche quella del paese. 

Da parte materna Francesco discendeva dall’illustre dottor Rocco Misetich, originario dell’isola di Brazza, ma che visse con la famiglia ed esercitò la professione di medico a Ragusa di Dalmazia, l’attuale Dubrovnik, che in segno di riconoscenza intitolò al suo nome l’ospedale della città. Qui i ragazzi Moise trascorrevano spesso le vacanze estive coi nonni materni e la madre. Francesco Moise, il padre e omonimo del nostro Francesco, conobbe la sua futura sposa, Lieposava, mentre prestava servizio in Dalmazia come ufficiale dell’impero austro-ungarico, responsabile delle fortificazioni delle mura della città. Erano infatti i primi anni del 1900 e Cherso faceva parte dell’impero austro-ungarico. 

Grazie alle vacanze estive a Ragusa, alle vicende della sua giovinezza e alla frequentazione di Cherso anche dopo l’occupazione jugoslava, Francesco parlava correntemente anche la lingua croata. 

Francesco ebbe sempre nel cuore Cherso ma vi trascorse solo l’infanzia e la prima giovinezza perché, ancor prima di completare gli studi, alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’isola di Cherso venne occupata dalle truppe del maresciallo Tito – come altri giovani paesani – fu arruolato forzosamente nell’esercito jugoslavo e portato a combattere all’interno della Jugoslavia. Dovette rimanervi per quasi anni. Tornato a casa, il giovane Franco per prima cosa sostenne gli esami di matura come privatista per conseguire il diploma di ragioniere. Subito dopo trovò un’occupazione, perché a quell’epoca a Cherso - come in tutta la Jugoslavia - c’era grande carenza di personale culturalmente e tecnicamente preparato, che era per la gran parte italiano e che, dopo l’occupazione jugoslava, esulò in Italia e altrove. Qualche tempo dopo Francesco espresse però il desiderio di continuare gli studi iscrivendosi alla Facoltà di Economia e Commercio. Le autorità locali gli proposero di iscriversi all’università di Zagabria ma egli dichiarò di preferire quella di Trieste, perché più vicina a Cherso e quindi più facilmente raggiungibile di quella di Zagabria. Ottenuto il permesso di andare ad iscriversi all’ateneo triestino, anziché recarsi all’università, Franco andò dritto dal Prefetto in carica di Gorizia con una lettera di presentazione del vescovo di Pola, Mons. Raffaele Radossi, parente della famiglia, perché l’aiutasse a trovare un’occupazione. 

Era il 1947 e da questa data in poi Franco risiedette a Gorizia, dove si integrò perfettamente nella vita sociale, culturale e politica della città divenendone anzi per qualche decennio un pilastro.  Ma non dimenticò mai Cherso, dove trascorreva più tempo possibile assieme alla famiglia, specie dopo aver riacquistato la proprietà di un vecchio capanno per gli attrezzi, in riva, e averlo ristrutturato assieme ai fratelli per adattarlo alle esigenze abitative odierne estive e invernali. 

Il suo primo impiego a Gorizia Francesco l’ebbe all’Ufficio Annonario del Comune. In seguito, quando questo Ufficio cessò la sua attività, trovò lavoro altrove e per alcuni anni cambiò varie volte datore di lavoro finché non fu assunto dall’INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattie), presso il quale ricoprì mansioni sempre più elevate e qualificate fino a diventare funzionario responsabile dell’Economato. 

Parallelamente aderì all’Azione Cattolica (di cui divenne anche Presidente Diocesano),  all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (della quale fu pure consigliere nazionale), al Centro Studi Rizzati, alla Corale Seghizzi, all’Istituto Culturale Mitteleuropeo (della cui contabilità si occupò gratuitamente fino alla fine dei suoi giorni), all’Unione Ginnastica Goriziana, all’Automobile Club, alla Croce Verde Goriziana, al consorzio di riabilitazione disabili (esperimento provinciale a livello nazionale), all’Azienda di soggiorno, all’Espomego e ad altri Istituti e Associazioni, in più d’uno dei quali ebbe incarichi di responsabilità o ne fu addirittura il Presidente.   

Si iscrisse fin dalla giovinezza alla Democrazia Cristiana, nel cui ambito fu eletto per più legislature consigliere e assessore comunale a fianco dei sindaci Poterzio, Gallarotti, Martina e De Simone. Questo periodo - riguardante gli anni ’60 / ’70 - fu sicuramente quello più importante della sua vita dal punto di vista personale e sociale perché la politica era la sua vocazione e il suo mestiere, l’attività che gli consentì di esprimere al meglio le sue naturali doti di comunicazione, giovialità, apertura e disponibilità verso gli altri che, congiunte alla progettualità e all’onestà, che sempre lo contraddistinse, fecero di lui un protagonista della vita politica e culturale di Gorizia. Egli è un uomo che, per le sue doti naturali e per l’intensa attività politico-sociale svolta, ha lasciato una profonda traccia nella città, osservabile anche dalla massiccia affluenza di persone comuni e uomini politici di tutte le correnti nella grande chiesa di Sant’Ignazio in piazza della Vittoria, a Gorizia, per dargli l’ultimo saluto ed esprimere la partecipazione al dolore della moglie Carmen, dei figli Michele, Franco e Marco, di nipoti e pronipoti. 

Numerosissime le missive di condoglianze ricevute dalla famiglia, attestanti stima e gratitudine per favori ricevuti, affetto per il defunto descritto come persona di grande cordialità, ricca di umanità nei rapporti personali e di grande apertura in quelli istituzionali; dalla spontanea cordialità dei comportamenti coniugata con il piacere della battuta e la vivacità del pensiero e della parola; di buon senso pratico, ma animato da profonda passione, in una prospettiva umana e sociale di apertura e tolleranza. 

Carmen Palazzolo Debianchi

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