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dei liberi pensatori

Commemorazione di Lucio Toth
DOPO LA S. MESSA DELL'11 GIUGNO 2003
Chiesa di S. Marco, Villaggio Giuliano-dalmata EUR 

Si legge nell'Esodo (15, 22-25). "Mosè fece levare l'accampamento di Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono nel deserto…Camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua. Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare…Allora il popolo mormorò contro Mosè: "Che cosa berremo?" Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell'acqua e l'acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova." 

Anche noi abbiamo camminato nel deserto. Anche noi siamo stati messi alla prova. Anche a noi fu offerta acqua amara, che non potemmo bere. Alcuni di voi lo ricordano.

E chi ci accompagnava nell'esodo dalle terre natali erano i nostri pastori. Ci precedevano come Mosè. Mons. Monzani, arcivescovo degli zaratini, Mons. Radossi, vescovo di Pola, Mons. Camozzo, vescovo di Fiume e Mons. Santin, vescovo si Trieste e Capodistria. E con loro parroci e cappellani, monache e frati. Me ne vengono in mente alcuni: Don Dapiran, Don Stefani, Padre Orlini, che diventerà Generale del suo Ordine e presidente dell'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, Padre Bommarco, che sarà poi Vescovo di Gorizia. E tanti altri che ci sono stati vicini nei campi profughi e nei successivi villaggi giuliano-dalmati costruiti dall'Opera.

Altri sacerdoti rimasero lì, a testimoniare, nel senso più letterale: "martiri". Oltre trenta sacerdoti italiani, istriani per lo più, persero la vita in quegli anni per mano delle bande che l'ateismo di Stato aveva scatenato contro di noi, per estirpare la fede in Cristo e la fedeltà alla Madrepatria. E' la nostra piccola "Chiesa del Silenzio". Un…silenzio che dura ancora.
E che Padre Rocchi cercava di rompere. Per alcuni di questi sacerdoti è in corso il processo di beatificazione...

Come fu Padre Rocchi il primo a rompere la cappa di silenzio e di omertà sulle Foibe, quando nessuno osava parlarne. Fu lui a far porre finalmente una pietra e un modesto cippo sulle foibe di Basovizza e di Monrupino, le uniche rimaste in territorio italiano. 

Come è stato che Padre Rocchi sia diventato la nostra "guida"?

Era nato tra le "masiere" di Neresine, un paese sul Canale tra Lussino e Cherso. La terra di quelle isole era un po' simile a quella della Galilea e della Samaria: dorsali aride e sassose, vallette irrigate con piccoli oliveti, vigneti e campi cintati di muretti a secco, le "masiere" appunto, vecchia parola locale del neo-latino dalmatico. E poi il mare, come a Tiberiade, le sue insenature fantasiose, i pescatori, le reti.
Fu tra rocce e scogli e piccoli paesi di pietra che crebbe il bambino Antonio Rocchi, che sarrebbe diventato Padre Flaminio. Tra contadini e pescatori. E rimase sempre così, contadino e pescatore. Il luogo migliore per diventare francescano. La bellezza e la severità della natura; il cuore e le tribolazioni degli uomini e delle donne di una terra dura. Poi il seminario, i primi conventi. Ma arrivarono anche per Flaminio le ore della guerra e delle armi. Cappellano militare. E non solo. E altre isole: la Sardegna e la Corsica.
Lasciati i soldati, Padre Rocchi incontrò sulla sua strada di frate i "profughi". Ed erano i "suoi" profughi. Parlavano il suo dialetto. Venivano da dove lui veniva. Erano migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia. Come stormi di uccelli che non sapevano dove posarsi. E che nessuno voleva. Flaminio andò loro incontro. Li andò a cercare: nei campi-profughi; tra i prigionieri che tornavano dall'India e dalla Russia, dal Sudan e dalla Germania; anche negli ospedali e nei manicomi, relitti di una tempesta senza nome che era passata su di loro.

E con umiltà, coraggio, determinazione li convinse ad affrontare il destino, a restare in piedi, a guardare avanti. E convinse chi non capiva del perché esistevano. Chi erano. Che cosa avevano lasciato. Quale libertà inseguivano.

E iniziò tra loro e tra chi li doveva ospitare il suo singolare apostolato. Pastore dei suoi fratelli, che il sentimento naturale della patria terrena gli aveva affidato. E fu conforto il suo nelle privazioni, nelle umiliazioni, nelle incomprensioni che seguivano alla persecuzione già patita, nel dolore nuovo dell'esilio, delle separazioni.

Perché quegli erano gli anni in cui la violenza degli Stati e l'arbitrio delle ideologie separava senza riguardi i gruppi familiari. Sceglievano loro chi doveva andarsene, chi doveva morire e chi doveva restare. Chi era italiano e chi slavo. E chi per una ragione, o per il suo contrario, doveva restare se non voleva o andarsene se avesse voluto restare. E così si svuotarono città intere, e campagne e paesi.
Uno dei primi impegni di Padre Flaminio fu proprio il ricongiungimento dei nuclei familiari. A cominciare dalla famiglia della sorella, rimasta imprigionata nel sistema concentrazionario iugoslavo.
Incontrò anche diffidenze e rimproveri nei suoi stessi ambienti ecclesiastici, Padre Rocchi, per l'eccessivo impegno nei confronti degli esuli, che lui cercava di spiegare che erano il "suo" prossimo, quello che il Signore gli aveva messo davanti.

Conosceva le famiglie di tutti. Conosceva le nostre città, chiesa per chiesa, calle per calle, campiello per campiello. E le descriveva con minuzioso amore, ricordandone il suono delle campane: San Mauro e San Nazario, SanTommaso e San Vito, Santa Anastasia e San Simone.

E ne conosceva la storia: perché dietro le reti e le vele delle battane, come quelle che stanno qui, a lato dell'altare, sul labaro azzurro di Neresine, vedeva i secoli che erano passati.

Padre Rocchi era un "padre Cristoforo" degli esuli. Un uomo semplice, a volte brusco nel tratto. Ma aveva la cultura degli "uomini di Chiesa". Dietro le citazioni più elementari si scopriva lo spessore della dottrina, la filigrana di una catechesi sapiente che dai fatti personali arrivava all'universale del messaggio evangelico. Non per nulla si era laureato a Lovanio e a Bologna e parlava varie lingue, con naturalezza e proprietà.
Era anche "uomo di mondo" e non si lasciava sfuggire un motto salace, una "butada" maliziosa.

Per questo anche era amato, e non solo stimato. Per quello che faceva: tanto. E per quel poco di cui si vantava. Costretto a volte all'apologia della nostra associazione per respingere critiche, quasi sempre ingiuste. Anzi, per quanto lo riguardavano, ingiuste sempre.

Che se responsabilità c'erano nei ritardi, nelle battute d'arresto nell'approvazione o nell'esecuzione delle leggi a favore dei profughi, nei rifiuti più umilianti, venivano dal contesto politico.

Era amico dei "potenti", sollecitatore di "grazie". Saliva tutte le scale, con tenacia disarmante. Ma restava sempre umile e tornava a testa china al suo convento, sia che avesse vinto che se avesse perso. Una volta all'anno andava con i suoi confratelli a San Francesco nel Deserto, un'isoletta della Laguna veneziana, a ritemprare lo spirito - diceva - a "riposarsi da noi", che non gli davamo pace. Negli ultimi anni tornava nella casa del fratello, in seno alla famiglia che lo ha assistito nell'infermità.

E tampinava per Roma, a quasi novant'anni, senza mai chiedere un passaggio in auto; maestro di mezzi pubblici, di autobus e di tram, percorrendo le vie assolate o piovose di Roma con lo stesso passo e gli stessi sandali delle stradine di pietra della sua Lussino. Traghettava da Piazza della Pigna a Piazza Cairoli, sognando forse che allo sbocco di Via Monte della Farina, chissà - per un miracolo - non si scorgesse il Vallone di Cigale, con l'azzurro del golfo che brillava sotto il sole. 

Adesso, che si è appena accomiatato da noi ed è tornato dal Padre, la sua anima tornerà lì, nei valloni tra Neresine e Ossero, a celebrare messa da solo, in italiano, nei piccoli cimiteri e nelle cappelline bianche in riva al mare.

Almeno adesso non glielo impedirà più nessuno.

E forse ha avuto la piccola consolazione di sapere, nelle ultime ore prima di morire, che il Papa a Fiume aveva pregato in italiano. Là, in fondo al Carnaro.

Lucio Toth
Presidente ANVGD - Roma

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