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dei liberi pensatori

Raccolta da Silva Bon a Capodistria/Koper
Presso il “Salotto del libro italiano”
23 Novembre 2017

D. Partiamo da un incipit: dal suo recente libro autobiografico “Memorie da sopra l’Equatore”. Come si è potuto realizzare il progetto Africa, vivere e lavorare in Ghana nel 1973?


R. Forse sono passati troppi anni, però ho danzato intorno all’idea di scrivere dell’Africa per molti anni. Si trattava di fare un lavoro non indifferente perché io non tengo un diario, però ho degli appunti che ho cercato di coordinare e di mettere insieme. Sono vissuta per cinque anni in Africa molto intensamente, l’Africa mi ha dato tantissimo, per questo motivo volevo scrivere dell’Africa.
Mio marito ha lavorato effettivamente in Africa e non è stata un’esperienza facile. Gli africani sono stati abituati per secoli ad essere sfruttati e non hanno quel senso di responsabilità, di etica verso il lavoro, che forse noi europei abbiamo; ma di questo difetto la colpa è nostra: c’è stato tutto il fenomeno del colonialismo, che è centrale nella storia dell’Africa … Mio marito ha dovuto fare parecchi incontri con i responsabili della fabbrica per spiegare che gli oggetti prodotti erano esposti ma non si potevano portar via senza pagarli. Quando siamo andati in visita, io e mio marito, dal re degli Ashanti, il personaggio colà più importante, il re ha spiegato che il suo popolo non aveva ancora il senso di responsabilità sul lavoro, ma ha aggiunto che era sicuro che mio marito lo avrebbe educato ad una etica condivisibile: è stato un approccio onesto, da parte del re …

 

D. Leggendo il suo libro mi sono fatta l’idea che vivere cinque anni in Ghana, dal 1973 al 1978, ha costituito per lei un percorso, un cambiamento di vita. Chi, che cosa ha contribuito a maturare questa crescita?
R. Il contatto con la gente, perché io mi sono trovata fin dal primo momento molto bene con la gente, semplice e gentile, come le fruttivendole, ad esempio, che mi chiedevano come stavo, e queste parole erano molto per me, abituata a non troppa affabilità … invece loro erano molto affabili. Un’altra cosa che mi ha colpito è stato il senso di libertà, perché gli Ashanti sono legati alle loro abitudini, alla loro “cultura del cuore”, che non tradiscono, restano fedeli alla propria cultura, pur attraversando la modernità. Questo è stato un insegnamento per me, che a Capodistria appartengo alla minoranza nazionale italiana, e ho visto la tradizione italiana calpestata e quasi annullata in così poco tempo, sono rimasta interdetta. Ho pensato come mai, loro, che avevano provato lo schiavismo, il colonialismo, erano stati per secoli sfruttati, non si erano lasciati sottomettere per quello che riguarda le loro abitudini, la loro cultura. Ho confrontato il senso di libertà degli africani con la mia preparazione, un po’ con i paraocchi … arrivavo da un paese dove vigeva un regime, tutti dovevamo pensare allo stesso modo, la libertà di parola mancava … sono maturata proprio a contatto con un popolo del terzo mondo: è cresciuto moltissimo il mio senso di identità, tanto che, quando sono tornata a Capodistria, ho cominciato a cozzare contro quanto dovevo ancora subire, soprattutto nel mondo del lavoro, dell’insegnamento, nel quale ero tornata.

D. Una giovane famiglia in Ghana. Un uomo, una donna, dei bambini piccoli, una neonata da crescere … Com’era l’organizzazione della vita, della giornata?
R. Per quello che mi riguarda, io mi sono trovata a essere signora là, in Ghana. Ero abituata a Capodistria ad assumermi la responsabilità di tutto il carico domestico, oltre all’impegno lavorativo, senza alcun aiuto. In Africa avevo lo steward, la babysitter, il giardiniere, l’autista … quindi ci si può immaginare, è stato il periodo più bello della mia vita, in questo senso … La mia preoccupazione più grande riguardava la salute fisica, avevo paura della malaria, delle malattie infettive; l’igiene stava al primo posto, voleva dire la vita. Per il resto mi sono presto organizzata, perché ci siamo trovati assieme ad altri europei e non europei, e abbiamo stretto delle amicizie. Con le donne che provenivano dall’Italia, dalla Serbia, dalla Norvegia, dalla Grecia, prendevamo assieme il caffè, un mondo di relazioni molto vario … Ma non posso dimenticare l’amicizia tutta particolare che mi ha unita a una mamy, venditrice al mercato, che è un luogo molto importante per la vita dei popoli africani, dove si svolge tantissima parte della vita quotidiana e sociale … andavo a trovare questa mamy una volta alla settimana, e si era instaurato un dialogo … lei era felice perché sapeva che il suo Presidente del Ghana era arrivato fino in Jugoslavia, si era incontrato con il maresciallo Tito, era sicura che il lavoro di mio marito non era sfruttamento, ma lui era il direttore di una fabbrica, in cui lavorava il suo popolo … il nostro era un rapporto diverso e io non ho mai fatto percepire un senso di superiorità, eravamo tutte e due donne, mamme, io con la fortuna di avere una vita agiata, lei invece, grazie alla sua salute, una lavoratrice, molto attiva, istruita … leggeva il quotidiano e mi raccontava degli articoli dei giornali, che parlavano di problemi forti in Africa, come il problema del cibo, della fame …

D. Il Mal d’Africa. Vi ha contagiati tutti, voi adulti, ma anche i piccoli figli Andrea e Lorella …
R. Senz’altro e partirò dai miei figli. Innanzi tutto là Andrea ha trovato una scuola favolosa, in cui l’insegnamento individualizzato era veramente messo in pratica. Mio figlio non ha mai fatto una lettura o una ricerca non confacente ai suoi interessi. E’ stato un periodo felice per lui, e quando è tornato a Capodistria è stato al primo momento una piccola tragedia, perché non corrispondevano più la relazione con gli insegnanti, il metodo di insegnamento, il rapporto con i compagni … era tutto profondamente diverso … viveva come in una bolla in cui tutto e tutti erano omologati alle stesse domande, agli stessi problemi, agli stessi esercizi, agli stessi programmi e lui a questo non era abituato, e non esisteva la questione del sovraffollamento, perché in Ghana erano in ventisette in classe … Anche con Lorella ho avuto un periodo difficile, era piccola, aveva quattro anni, non riuscivo a spiegarle, a parlarle, come con Andrea … lei piangeva, voleva tornare da Rose, la sua babysitter, diceva che qui tutti sono sempre arrabbiati … Io ho dovuto riorganizzarmi la vita in maniera totale, pensare al lavoro con un altro cervello, perché la mia indipendenza, la mia libertà di scelta non potevano essere prese in considerazione, non si doveva uscire dal sistema imposto. In Ghana avevo ben studiato il metodo di insegnamento individualizzato e volevo applicarlo a Capodistria, ho chiesto al preside di poter insegnare a piccoli studenti, ma ho avuto molti problemi, perché il programma ministeriale doveva essere applicato rigidamente, fin nella scelta delle singole poesie da leggere … era un clima politico che limitava la mia personalità, il mio gusto estetico …

D. Lei ci ha illustrato molto bene lo scarto del reinserimento in una realtà sociale e politica che sta stretta …
R. Veramente, perché non esisteva la libertà di insegnamento, di iniziativa personale, di indipendenza, di creatività. Poi pian pianino le cose sono cambiate, allora avevamo un mondo chiuso …

D. I valori culturali, spirituali, paesaggistici di Kumasi, Ghana, nel cuore dell’Africa, sono il centro del suo libro autobiografico. La narrazione parla di lei come donna, attraverso la sensibilità propria di una poeta, e le curiosità di un’intellettuale.
R. Effettivamente l’ambiente, la natura, sono molto rispettati dai Ghanesi, infatti Kumasi è una città-giardino. Loro sanno che non sono mai vincenti di fronte alle forze naturali, nella natura ci sono molti misteri, che rimangono misteri … sono legati anche con i loro riti, con la loro religione alla natura: Terra Cielo e Persona sono uniti. Poi hanno dei riti collegati al wudu, dove noi come europei non riusciamo ad entrare. Mi è piaciuto tantissimo il loro rispetto verso l’anziano, e verso i bambini, che sono tutti angeli; l’anziano non muore mai, lascia sempre in eredità i valori, le abitudini, gli usi. Il rito funebre non è veloce, loro sanno accompagnare una persona anche per sette, otto giorni … Vicino a casa nostra c’era un villaggio dei nativi e una sera abbiamo sentito i loro tamburi parlanti, che rappresentano la voce di un uomo e di una donna, e nell’occasione funebre hanno un suono del tutto particolare che scuote, passano i brividi lungo la schiena, perché sono momenti particolari accompagnati da sussurri, da suoni, è molto impressionante. I suoni si sono protratti tutta la notte e la mattina dopo sono andata dalle mamy che vendevano la verdura, il pane e la frutta, e loro mi hanno spiegato anche il fatto che gli uomini si vestono con manti color viola …

D. La ringrazio per questa intervista così emozionante e coinvolgente. Se vuole lasciarci un messaggio personale …
R. Vorrei dire qualcosa rispetto alle immagini che vediamo ogni giorno in televisione, a proposito degli immigrati. Quando vedo il popolo africano così in moto, mi viene in mente che il popolo africano è sempre in moto, loro vanno verso qualcuno e verso qualcosa … noi non riusciamo a capire … come quando l’africano ti chiama ‘mamma’ o ti dice ‘sorella’, non lo dice per prendersi una confidenza, ma lo dice perché ha questo sentimento dentro … tra di loro sono tutti fratelli e sorelli, e il giorno che mamy Rose mi ha detto ‘sei mia sorella’, io mi sono commossa, perché dietro quel ‘sorella’ ci sono tantissime cose, è come dietro la parola ‘fratello’ di San Francesco.

D. Grazie di questo messaggio altissimo.

 

Silva Bon


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