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dei liberi pensatori

di Giorgio Ledovini, profugo da Sicciole di Pirano

Si parla molto sui media di oggi del problema della frequenza delle scuole di tutti gli ordini nell'imminente inizio dell'anno scolastico. L'argomento è d'attualità a causa dei condizionamenti della pandemia sulla nostra vita individuale e sociale, che non possono escludere una parte importante come quella dell'educazione. Nei media vengono di solito messi in primo piano gli aspetti politici; articoli si chiedono quali potrebbero essere le conseguenze umane e sociali negli allievi, particolarmente i più giovani, in conseguenza di una modifica dei mezzi e metodi di insegnamento. Ed è una giusta preoccupazione.

 

Penso che non sia fuori luogo pertanto ricordare oggi quella che è stata la mia scuola e l'influenza che essa ha avuto nella mia formazione.

Io ho frequentato le elementari in località Gorgo di Sicciole, nel comune di Pirano, in una scuola che era stata fondata nel 1906.

Questa scuola è stata per tutti noi, di Sicciole e dintorni, un punto importante di aggregazione e formazione primaria. Molti insegnamenti che io ho ricevuto nel tempo in cui l’ho frequentata, sia direttamente dagli insegnanti, sia indirettamente dall’esperienza formativa che si acquisisce a contatto con i coetanei, hanno in varia misura lasciato un segno nella mia vita.

È scolpito nella mia memoria il primo giorno di scuola, nell’autunno 1945. Parte dell'edificio era occupato dai partigiani slavi; servizi igienici erano inagibili e per prima cosa gli insegnanti, dopo averci schierati tutti sul muretto davanti alla scuola, si sono premurati di dirci che, in caso di necessità, potevamo a turno utilizzare un posticino dietro all’edificio. Mi sentivo eccitato e forse un po’ impaurito in mezzo a tanti compagni nuovi. Nello zainetto, oltre al materiale scolastico, una merenda costituita da un pezzo di pane nero e delle mandorle, colte dal mandolaro che avevamo davanti a casa; più avanti arrivò anche qualche preziosa arancia, ma il pane era sempre nero (alcuni panini bianchi, cotti in casa, erano riservati al mio fratellino più giovane, di soli due anni).

La prima elementare di quell’anno era una classe numerosissima: c’erano molti compagni più grandi di noi “regolari”, anche di tre o quattro anni, le cui carriere scolastiche erano state scombussolate dalla guerra. Va anche detto che a quei tempi la promozione non era garantita: chi non stava al passo veniva bocciato senza mezzi termini. Inoltre i ragazzi “con problemi” non avevano certamente l’ “insegnante di sostegno”: ricordo in particolare un compagno, avrà avuto dieci/undici anni, che se ne stava solo nell’ultimo banco a scarabocchiare su un blocchetto, praticamente esentato dal partecipare alla vita della classe. Accadde un giorno che costui infilasse in qualche modo il capo nel vano sotto il ripiano inclinato del banco e, forse per la fretta in quanto preso da claustrofobia, non riuscisse più ad uscirne.

Altri ricordi sono legati ad un freddo inverno, forse il 1947. Sulla strada che facevo per raggiungere la scuola una casa era andata a fuoco durante la notte. Essa mi apparve d’improvviso con un aspetto spettrale e desolato: il tetto era sparito e attraverso le finestre dell’ultimo piano si vedeva il cielo, travi cadute e carbonizzate ancora fumanti e qua e là stalattiti di ghiaccio dell’acqua che i pompieri avevano usato per spegnere l’incendio; intorno alla casa qualche mobile portato fuori in fretta. E’ stata una lezione forte di vita anche per il modo di esplicarsi della solidarietà della gente: si verificò una differenziazione spontanea individuale del contributo volontario per le famiglie colpite, per cui, siccome l’incendio era dovuto ad una nota disattenzione, molti preferirono contribuire soltanto per chi giudicarono danneggiato ingiustamente. 

Ma un’altra giornata invernale fa parte dei ricordi legati alla mia vita di scolaro. Il freddo e la bora quel giorno erano tali che, giunto a scuola, ho invano aspettato compagni e maestri: ero solo e tale rimasi finché la bidella, che tuttavia aveva già acceso la stufa a legna, pensò bene di congedarmi con un “picio mio, cos’ ti vol far qua? Va’, va’ casa”.

Nei ricordi ci sono anche esperienze di vita ancora indelebili: la morte, di malattia, di un compagno di classe in seconda o in terza; la morte di un altro ragazzo caduto da uno degli ippocastani davanti alla scuola, per la rottura di un ramo sul quale si era arrampicato (l’albero stesso si è poi rinsecchito!); gli scherzi da nonnismo, mai piacevoli, che dovevo subire, essendo uno dei più piccoli, nel tragitto casa/scuola (circa un chilometro di strada di campagna); le furbizie e le liti con i compagni di gioco che cercavano di fregare (il gioco della vegna si prestava a questi comportamenti soprattutto quando si doveva decidere se iera brusa o no, cioè se la moneta che era stata lanciata sulla figura di quattro quadrati accostati tracciati a terra toccava una linea - brusa - e quindi chi l'aveva lanciata la perdeva, o viceversa).

L’insegnamento, tenendo anche conto dei metodi e degli orientamenti del tempo, era una cosa seria sia nell’attuazione della disciplina (ho saputo tanti anni dopo da una delle nostre maestre che ciò non era facile per loro perché eravamo molto “liberi ed indisciplinati“) che nella cura e nell’impegno degli insegnanti. Ritengo infatti che abbiamo avuto una buona preparazione: questo l’ho appurato anni dopo, frequentando scuole più impegnative in altre parti d’Italia. Va da sé però che qualche moderno pedagogo obietterebbe che i buoni risultati venivano ottenuti ad un prezzo altissimo in termini di rimandati a settembre e bocciati. Ma i tempi erano quelli.

E’ stata anche la scuola delle prime prove, come le interrogazioni, precedute dai ben noti stati di tensione; soprattutto memorabile l’esame di ammissione alla scuola media che si teneva a Pirano: sede ed esaminatori nuovi che accentuavano la tensione della prova. Ho fatto tanti esami dopo, ma quelli, forse perché erano i primi, mi sono rimasti più impressi nella memoria.

In questa scuola si è radicata ed è cresciuta in me la coscienza della mia appartenenza nazionale. Se ben ricordo nella nostra aula ci stavano due carte geografiche: una dell’Italia fisica e l’altra dell’Italia politica. Ciò era in linea con la natura stessa della scuola che era stata fondata sotto l’Austria come scuola italiana; conservo infatti gelosamente una pagella di mia madre dell’anno scolastico 1908/1909, scritta su un prestampato interamente in italiano.

Solamente nel secondo dopoguerra è stata aggiunta una sezione slovena; la frequenza di questa però non deve aver risposto alle aspettative delle autorità occupanti se è vero, come è vero, che nei primi anni Cinquanta un considerevole numero di iscritti alle prime classi delle elementari italiane, scelti con criteri non sempre chiari, è stato obbligato a frequentare la scuola slovena. E’ stato questo uno dei periodi più bui della storia della nostra scuola e questa disposizione, arrivata non si sa da quale livello di autorità, va aggiunta alle varie cause dell’esodo.

In quegli stessi anni c’è stato il passaggio dalla scuola elementare di impostazione e programmi italiani alla scuola cosiddetta ottennale (io, dalla quinta elementare anziché passare alla prima media di Pirano, per la quale avevo superato l’esame di ammissione, passai alla sesta ottennale, con sede sempre al Gorgo).Questo tipo di scuola aveva, a mio parere, una buona impostazione didattica, anche se presentava evidenti lacune dovute a ragioni di carattere ideologico e politico. Era però gestita da insegnanti giovani, dinamici, coscienziosi ed aperti verso le nostre esigenze, perché erano in genere compaesani. Con taluni di questi, esodati come noi, siamo rimasti in contatto, a dimostrazione che il legame allievo/maestro di quegli anni, molto importanti per la nostra crescita mentale oltre che fisica, ha lasciato un segno.

La nostra è stata una classe nella quale abbiamo avuto la ventura di stare assieme, cioè di studiare, giocare, litigare, nonché di avere qualche cottarella, per ben otto anni. Alla fine eventi al di sopra di noi ci hanno sparpagliato ai quattro venti. Questi otto anni non possono però essere gettati alle spalle sic et simpliciter, perché, anche quando si vogliano dimenticare, qualcosa di nascosto rimane sempre e quando questo qualcosa ricompare si accentua un senso di nostalgia per la nostra verde età ed una vena di tristezza nel ricordo dei compagni che ci hanno già lasciato e che non si può fare a meno di ricordare.

Desidero concludere queste mie note, per lo più personali ma direttamente o indirettamente legate alla scuola del Gorgo, ricordando che non si può dimenticare che essa, nei suoi oltre cent'anni di vita, ha contribuito a formare uomini nel senso lato del termine, e ciò forse più per merito degli insegnanti che si sono succeduti che per quello dei vari programmi ed ordinamenti statali.

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