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dei liberi pensatori

di Carmen Palazzolo

La giornalista Milena Gabanelli ne ha scritto sul Corriere della Sera del 18.01.2021 e ne ha riferito lo stesso giorno al telegiornale delle ore 20 di TV 7. 

Se ne ricava che i costi delle crisi per il sistema-Paese Italia sono altissimi in termini economici e di credibilità e affidabilità e mi domando perché se ne parli così poco, anche in questo periodo in cui la preoccupazione nel nostro paese per quanto sta accadendo in politica è tale da aver quasi soppiantato quella per la pandemia.

Passando alla relazione della Gabanelli, “Dal 1946 ad oggi – ella dice - abbiamo avuto 66 governi e 29 presidenti del Consiglio e dal 1994, con la seconda Repubblica, 16 governi con 10 premier, rimasti in carica in media 617 giorni. Nello stesso periodo di 26 anni in Francia ci sono stati 5 presidenti (Mitterand, Chirac, Sarkozy, Hollande e Macron); in Spagna pure 5 (Gonzalez, Aznar, Zapatero, Rajoy e Sanchez); in Germania 3 cancellieri (Kohl, Schroder e Merkel)”.

Perché in Italia accade tutto ciò?

Per tre ragioni, dipendenti due dagli articoli 70 e 67 della nostra Costituzione e una dalla nostra legge elettorale. Infatti, secondo il suddetto art. 70 ogni legge deve essere approvata da Camera e Senato, il che raddoppia il potere di veto dei partiti; secondo l’articolo n. 67 si può poi essere eletti con un partito e, durante la legislatura, passare a un altro, cosa che rende possibile ogni forma di ribaltone e anche di corruzione. Secondo la nostra legge elettorale infine, se un partito non prende il 51% dei seggi non può governare da solo, ma deve trovarsi degli alleati, e questo significa che anche un partito con il 3 % può far crollare un governo. 

Anche in Germania il governo è sostenuto da ampie coalizioni, ma non implode, sia per una consolidata cultura di governo, sia per l’istituto della sfiducia costruttiva. Ciò significa che, se il Bundestag vuole mandare via la Merkel, deve prima eleggere a maggioranza un suo successore, evitando così crisi al buio. La Francia, invece, dal 1958 è una Repubblica semipresidenziale, dove il presidente è eletto direttamente dal popolo.

Ma, chi provoca la crisi, ci guadagna?

La storia ci dice che non è sempre così. Umberto Bossi, dopo aver fatto saltare il governo Berlusconi alle elezioni del 1996, fa guadagnare più voti alla Lega, che passa dall’8,4 al 10 %, ma deve uscire dalla coalizione di centrodestra, dimezzando così i seggi in Parlamento (da 178 a 86). Fausto Bertinotti, artefice della crisi del governo Prodi nel ’98, alle elezioni politiche del 2001 provoca il passaggio di Rifondazione Comunista dall’8,5 al 5% e perde i due terzi dei seggi in Parlamento (da 46 a 15). Per Clemente Mastella abbattere Prodi significa far sparire la sua Udeur, ma lui resta in politica passando al Pdl come parlamentare europeo. Nel 2014 Matteo Renzi fa cadere il governo Letta e diventa il presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana ma, tempo due anni, è costretto a dimettersi dopo il fallimento del referendum costituzionale, contro il quale si schiera anche parte del suo partito. Matteo Salvini, che fa cadere nell’agosto 2019 il governo Conte I, secondo i sondaggi perde in un anno quasi 10 punti. 

Ma, cosa accade al sistema-Paese Italia in caso di crisi?

Quando cambiano i presidenti del consiglio cadono anche gli uomini-chiave che si erano scelti, quali il capo gabinetto, il capo dipartimento, il capo legislativo, il capo segreteria tecnica, tutti i vice e i funzionari, il che significa che tutto quello che non è ordinaria amministrazione si paralizza per un periodo che può durare fino a 5 mesi. 

I rallentamenti sono inevitabili al temine di ogni legislatura, ma se capitano ogni uno o due anni sono devastanti perché pesano sulla produttività, sul pil, sul debito.

Le variazioni dello spread, considerato l’indicatore principale per misurare il rischio-Paese, sono influenzate dall’instabilità politica, dalla litigiosità di un governo e dal tipo di politiche attuate. I 70 giorni di gestazione per dar vita al primo governo Conte fanno impennare lo spread di 100 punti, passando da 144 a 241 e durante questo governo lo spread aumenta di 120 punti rispetto al periodo settembre 2014 – maggio 2018. Sono enormi conseguenze se si pensa che settanta sono i punti base ricondotti al rischio politico, che si traducono in un aumento del debito pubblico di quasi 5 miliardi di euro. Tutto ciò ha una ricaduta negativa anche sugli investimenti come quelli che i maggiori fondi globali (come Macquarie, BlackRock, Blackstone, Brookfield) vorrebbero fare nelle infrastrutture italiane nei prossimi 12 mesi. Per il 79% di loro l’ostacolo è però rappresentato dalla nostra instabilità politica e regolatoria. Un fattore che impatta anche sugli investimenti esteri in imprese italiane (Foreign Direct Investment, FDI), dove l’effetto delle riforme non lo vedi subito, ma si produce negli anni. Sia in positivo che in negativo. Per la Trade & Investment Agency, ossia l’Agenzia per il Commercio e gli investimenti, dopo una serie di riforme attuate dal 2011, nel 2019 l’FDI Confidex Index vede classificata l’Italia all’ottavo posto a livello mondiale e al quarto nell’Ue dopo Germania, Gran Bretagna e Francia. Grazie a quelle riforme negli ultimi due anni abbiamo guadagnato 5 punti.

Le continue alternanze impediscono di costruire una direzione di marcia e rafforzare le relazioni. Negli ultimi 10 anni nelle 87 riunioni del Consiglio europeo che definiscono l’agenda politica dell’Ue, l’Italia ha partecipato con sei diversi premier. La Francia e la Spagna con tre, la Germania con uno. Nelle 10 riunioni del G7, che riunisce gli Stati economicamente più importanti del Pianeta, il numero di riunioni massime a cui partecipa lo stesso premier italiano sono 3 contro 10 della Germania; 7 di Usa, Giappone e Regno Unito; 5 di Canada e Francia. Senza continuità è più difficile incidere sugli scenari internazionali, come in Libia, con la quale, fino al 2018 le uniche interlocuzioni sono state con l’Italia, poi abbiamo smesso di occuparcene. Così la Turchia ha preso il controllo della Tripolitania e la guardia costiera libica dipende ora dal comando militare turco e l’Italia, oggi, se vuole trattare sui flussi migratori deve pagare Erdogan.

Il continuo «andiamo avanti, no ci fermiamo» con la TAV (il nuovo tratto ferroviario Torino-Lione, per merci e passeggeri alla velocità massima di 220 km/h) ci ha fatto perdere 600 milioni di euro in tre anni. 

Ora il governo Conte ce l’ha fatta ancora una volta ma il consenso al Senato è molto “risicato”. È legittimo quindi chiedersi cosa ne sarà, ad esempio, del decreto Ristori, che deve essere redatto dal capo del legislativo e firmato dal ministro dell’Economia. Questi due personaggi saranno gli stessi del governo precedente? Perché, se non sarà così e sarà necessario nominarne altri, che dovranno impratichirsi, ritarderanno l’arrivo dei bonifici. Altri cambiamenti potranno provocare la fine su un binario morto del fondo per ricapitalizzare le piccole e medie imprese o il ritardo nella decisione di come spendere i tre miliardi che sono stati stanziati per le politiche attive per il lavoro, mentre i disoccupati si avvicinano ai 3 milioni. E bisognerà forse anche ricominciare da capo con i 209 miliardi del Recovery, dove il fattore tempo è sostanzale, esponendoci al rischio di perdere questi soldi.

Come si fa a uscire dai suddetti “impacci”?

Ci sono due strade – dice la Gabanelli - una riforma costituzionale che dia al governo più poteri e maggiore stabilità, e la deve votare il popolo. O il popolo in Parlamento ci manda onorevoli di miglior qualità. 

Ma io vorrei aggiungere alcune considerazioni. Se i nostri politici conoscono quanto è stato esposto sopra – e dovrebbero conoscerlo! – chi provoca una crisi è semplicemente una persona indegna di svolgere il ruolo per il quale è stata eletta, che è quello di operare per il bene degli elettori e della nazione, e andrebbe rimossa. D’accordo dunque con la brava giornalista Gabanelli: innanzitutto, a mio avviso, eleggere persone di migliore qualità e poi cambiare la Costituzione e la legge elettorale.

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